lunedì 31 agosto 2009

Se la Cina parla arabo...


Un nuovo canale.
La Cina è pronta ad inaugurare il suo primo canale satellitare in arabo. Dopo le trasmissioni in inglese, francese e spagnolo, la Cctv, la televisione di stato cinese, si prepara a sbarcare in Nord Africa e Medio Oriente. Intrattenimento, news e programmi educativi saranno diretti ad un bacino di circa 300 milioni di persone in 22 paesi.

Grandi progetti.
Gli obiettivi sono ambiziosi. Altrimenti non si spiegherebbero i cinque miliardi di euro investiti nel progetto. Perché non si parla solo di informazione, ma di quanto sia labile il confine tra questa e la propaganda. È ben noto anche a Pechino, infatti, come i media siano sottili diffusori di idee, ideologie, modelli di comportamento. E a Pechino sanno bene anche quanto questi siano importanti, se si aspira ad acquistare importanza nello scacchiere mondiale: sul soft power, quell’ insieme di cultura, ideali condivisi, identità civica, gli Stati Uniti ci hanno costruito gran parte delle fondamenta del loro impero.
E così, gioca la carta televisiva. A calare l’asso per primi sono stati gli anglosassoni: BBC e CNN non sono solo indistruttibili corazzate informative, ma anche potenti veicoli di diffusione culturale. E Pechino ha imparato la lezione: l’espansione economica e strategica non può non passare per la cultura; soprattutto ora, quando tutto il mondo è a portata di telecomando.

Scelta oculata.
La scelta del mondo arabo è lungimirante: la possibilità di stringere relazioni con i paesi di quella che viene definita nuova via della seta è un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela scappare, soprattutto quando ci sono da vincere le resistenze del mondo islamico che cerca spiegazioni riguardo il sangue versato nella regione a prevalenza musulmana dello Xinjiang. Vicende per le quali il governo cinese accusa un coverage parziale e difforme dei reporter occidentali, etichettati come “prevenuti”.

I precedenti
Insomma, più si allarga il mercato mediatico, più si sente il bisogno di alzare la voce, di far sentire la propria versione dei fatti, come era successo con Al Jazeera, il cui slogan recita proprio ” l’opinione e l’opinione contraria”. L’emittente satellitare del Qatar nasce, infatti, con la vocazione ad essere l’altra faccia della medaglia: è stata proprio la Guerra del Golfo, zenit dell’americanissima CNN, a far sentire ai paesi arabi la mancanza di voci in grado di diffondere l’informazione con una sensibilità più vicina ai propri interessi strategici e geopolitici. E poi, scelte indovinate, come la copertura approfondita della Seconda Intifada, o la decisione di aprire un ufficio di corrispondenza in Afghanistan ben prima dell’intervento statunitense, hanno portato Al Jazeera ad emanciparsi completamente dai quadri interpretativi forniti dalle principali emittenti occidentali, con la possibilità di diffondere scelte tematiche e argomentative proprie anche attraverso un canale in inglese.

Paese che vai, media che trovi...
A cadere è il monopolio occidentale dell’informazione. Non sono più solo i broadcaster europei e statunitensi a dominare il mercato informativo, ma fanno capolino, e acquistano diritto di parola, anche emittenti espressione di voci che fino a pochi anni fa erano troppo flebili per farsi ascoltare, o che avevano come massima espressione solo forme di grossolana propaganda.
Non senza paradossi: in un mondo dove i divi di Hollywood sono icone che trascendono le culture, e il linguaggio della pubblicità corre incurante di confini, frontiere e passaporti, l’informazione rischia di diventare sempre più regionale, frammentaria, legata a interessi e idiosincrasie particolari, malgrado la sua potenziale diffusione su scala globale. Il tutto esasperato dalle caratteristiche proprie delle notizie al tempo del web,sospese tra il moltiplicarsi delle fonti e il diffondersi delle informazioni senza che ci sia necessariamente un severo professionista di guardia al cancello.

martedì 11 agosto 2009

Ancora domiciliari per Aung San Suu Kyi.


E così, si è risolto il processo ad Aung San Suu Kyi. Ancora arresti domiciliari, per lei: ne avrà per altri diciotto mesi. L'accusa era di violazione degli arresti domiciliari. Ma, per molti, è soltanto l'ennesimo tentativo di controllo del regime. La donna, infatti, avrebbe finito di scontare la sua pena lo scorso 21 maggio: la sua reclusione durava dal 1989.

John William Yetahaw, il cittadino americano mormone che lo scorso tre maggio aveva raggiunto a nuoto la dimora della leader dell'opposizione, è stato invece condannato a sette anni di lavori forzati.
L'uomo ha dichiarato che a spingerlo verso la residenza della donna era stata una visione che ne faceva, a suo dire, presagire un imminente assassinio.

San Suu Kyi è stata condannata a tre anni dal tribunale militare. Una pena commutata in un anno e mezzo di arresti domiciliari dal generale Than Shwe, capo della giunta militare attualmente al potere: un tempo sufficiente per escludere il capo della Lega Nazionale per la Democrazia dalle prossime elezioni, previste per il 2010.

giovedì 6 agosto 2009

Haiti: manifestanti chiedono un aumento del minimo salariale


Tutti davanti al Parlamento per chiedere un aumento del minimo salariale: ad Haiti la protesta si è trasformata rapidamente in scontro.
Circa 2000 manifestanti sono scesi in strada per far valere le loro ragioni: alcuni hanno tirato pietre agli agenti di polizia, che hanno risposto lanciando gas lacrimogeno per disperdere la folla.

Quello del minimo salariale è uno dei problemi più pressanti nella politica haitiana. Secondo i manifestanti, i due dollari fissati come reddito minimo non bastano a garantire uno stile di vita dignitoso.

Lo scorso maggio era stato approvata dal Parlamento una proposta di legge che prevedeva di triplicare il reddito minimo garantito. Ma la reazione contraria del presidente haitiano, Rene Preval, si è fatta sentire: "Gli operai delle fabbriche che producono vestiti dovrebbero ricevere un aumento che porti il minimo salariale a tre dollari, non di più."
Il presidente raccoglie le istanze di coloro che credono che una legge che obblighi a incrementare i salari possa rendere molto più diffficoltosa l'assunzione regolare degli operai.

Secondo un rapporto diramato dalle Nazioni Unite lo scorso gennaio, Haiti potrebbe creare milioni di nuovi posti di lavoro, specialmente nel tessile, approfittando delle esenzioni doganali che regolano gli scambi con gli Stati Uniti.
Oggi, però, su 9 milioni di haitiani, sono solo 250 mila ad avere un lavoro regolare: gli altri si dedicano all'attività nei campi, oppure alla vendita ambulante.